Inner game, vino rosso e creatività

Coaching, Tim Gallwey, Giovanni Lucarelli, Inner game

Che cosa hanno in comune il vino rosso, la creatività e l’inner game?

Venerdì scorso ero a Roma in occasione del “Forum delle Eccellenze”, organizzato (in modo impeccabile) dai ragazzi di Performance Strategies. Nella cena di apertura mi sono seduto ad un tavolo in cui non conoscevo nessuno (per aprirmi alle novità) e, pochi minuti dopo, si sono uniti a noi Timothy Gallwey, la sua compagna Barbara e Vera, l’interprete.

Essere a cena con Tim Gallwey, uno dei padri fondatori del coaching, non capita tutti i giorni (ok, ho avuto una notevole fortuna …).

Tim, classe 1938, è noto come il teorizzatore dell’inner game, il “gioco interiore”. Negli anni ‘60, ci ha raccontato, era il capitano della squadra di tennis dell’Harvard University e, per migliorare le sua concentrazione, ha cominciato a praticare la meditazione sotto la guida di Maharaj Ji (al secolo Prem Rawat), un giovane maestro indiano.

Questa esperienza, e la successiva permanenza di due mesi in India, nel 1970, gli ha permesso di migliorare le sue performance sportive e, soprattutto, ha cambiato profondamente il suo approccio al gioco del tennis, al lavoro e alla vita.

Nel 1974 Tim ha pubblicato “The Inner Game of Tennis”, il libro in cui ha presentato, per la prima volta, la sua teoria del “gioco interiore” e che lo ha reso famoso al grande pubblico. “L’avversario nella nostra mente”- secondo Tim – “è molto più forte di quello dall’altra parte della rete”.

In ogni situazione sportiva, professionale o personale, ci troviamo a “giocare” su un duplice campo, sostiene Tim: quello esterno e quello interno. All’esterno abbiamo un avversario in carne ed ossa oppure una problematica lavorativa da risolvere, a livello interno, invece, dobbiamo fare i conti con i nostri pensieri e tutto ciò che, in maniera più o meno consapevole, diciamo a noi stessi.

Il “gioco interiore” influenza, ovviamente, quello esterno e spiega perché sportivi e manager di grande talento non riescano ad ottenere risultati importanti né ad avere prestazioni di alto livello.

Anche Barbara, con una verve tutta newyorkese, conferma come questo approccio sia stato applicato con successo nei diversi ambiti del coaching (sport coaching, business coaching, career coaching, life coaching, ecc.).

Rifletto sul fatto che ciò che Tim ci racconta, dall’alto della sua esperienza professionale e dei suoi settantacinque anni, è valido anche per lo sviluppo delle risorse creative.

 

Inner game: rimuovere gli ostacoli (al pensiero creativo)

Nel “gioco interiore” veniamo spesso ostacolati dai nostri stessi pensieri, senza esserne pienamente consapevoli. La paura del cambiamento, quella del fallimento o del giudizio degli altri rischiano di immobilizzare le nostre potenzialità creative e la nostra energia.

Io non sono creativo”, “Non mi vengono mai buone idee”, “Se propongo questa idea verrò deriso”: ecco alcuni esempi delle frasi che, a volte, ripetiamo a noi stessi.

Per imparare a gestire in modo positivo questo “inner game”, Gallwey suggerisce tre strategie:

1. aumentare la consapevolezza (non giudicante) della situazione: nell’esempio dell’ideazione creativa, riconoscere la propria difficoltà e sperimentare il differimento del giudizio, lasciando scaturire le idee senza alcuna valutazione o critica;

2. fare una scelta chiara sul proprio impegno: dedicare, ad esempio, venti minuti alla generazione di idee, oppure predisporre un elenco puntato in cui annotare almeno trenta proposte;

3. imparare a fidarsi del proprio potenziale ed essere disponibili ad imparare: applicare con costanza un approccio creativo e apprendere continuamente nuove tecniche e metodologie.

 

Sviluppare un grande potenziale

Le persone hanno un potenziale creativo molto più ampio di quanto credono; se riescono a padroneggiare l’inner game, riducono drasticamente le “interferenze” che lo condizionano e lo ostacolano. Tim, da buon pragmatico, sintetizza questa situazione con una formula: P = p – i, la performance è uguale al potenziale meno l’interferenza.

Bisogna riscoprire, a qualunque età, l’appetito per l’apprendimento e la passione nel fare le cose”, afferma gustando un sorso di Sangiovese: “riusciamo, così, a fondere la capacità di imparare dall’esperienza e la capacità di essere consapevoli di ciò che stiamo facendo.”

In un percorso di sviluppo delle potenzialità creative, in effetti, le persone acquisiscono metodologie efficaci, maggior consapevolezza nelle proprie potenzialità e, ovviamente, maggior autostima e fiducia in sé.

 

Divertirsi con le sfide creative

Tim, raccontando la sua sfida di insegnare ad una principiante a giocare a tennis in 30 minuti, accenna ad un concetto importante (che riprenderà nel suo speech): sicurezza e sfide devono procedere di pari passo.

Se c’è sicurezza ma le sfide sono poco coinvolgenti, non c’è crescita; se le sfide sono molto ardue ma non c’è sicurezza, nessuno si prende il rischio di affrontarle. Anche nelle attività formative e/o professionali è importante proporre sfide innovative proporzionali alla sicurezza e alle abilità creative delle persone.

Uno dei commensali fa una domanda sulle performance. Tim, sorridendo, risponde che le prestazioni sono sostenute dall’apprendimento e dal divertimento. Quando non ci si diverte, l’apprendimento diventa faticoso, il lavoro pesante, e le prestazioni calano.

Mi torna in mente il concetto di “ozio creativo” che nasce, secondo il sociologo (e amico) Domenico De Masi, dall’intersezione tra lavoro, studio e gioco. La creatività è più agevole ed abbondante quando riusciamo ad integrare il piacere e la leggerezza del gioco con la concretezza e la produttività del lavoro (o dello studio).

 

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