L’emisfero sinistro è analitico, pratico, organizzato, logico e razionale, quello destro è spaziale, non verbale, sintetico, globale, vivace, artistico e creativo.
Ti sarà capitato di ascoltare (o di leggere) definizioni di questo genere, ma le cose non stanno (più) così: questa descrizione del nostro cervello appare, oggi, superata e, detto tra noi, piuttosto parziale.
In che modo i due emisferi sono coinvolti nei processi di pensiero e, soprattutto, nel processo creativo?
Procediamo con ordine.
Come nasce il mito dell’emisfero destro e sinistro?
La differenziazione emisferica viene ipotizzata, per la prima volta, da Diocle di Caristo, medico greco, che, nel IV secolo a.C., scriveva: “Nella testa ci sono due cervelli: uno dà la capacità di comprendere, l’altro provvede alla percezione sensoriale. Vale a dire: sul lato destro c’è quello che percepisce, ma è con quello che sta a sinistra che comprendiamo.”
Le prime evidenze scientifiche, però, risalgono al 1861, quando Paul Pierre Broca, neurologo e chirurgo francese, ha evidenziato, con una serie di esperimenti, che l’emisfero sinistro (in particolar modo la terza circonvoluzione del lobo frontale) è coinvolto nella produzione e nell’elaborazione del linguaggio.
Nella seconda metà del ‘900, l’équipe guidata da Roger Sperry, neurobiologo statunitense, ha svolto numerose ricerche, presso il California Institute of Technology, sui pazienti “split-brain”, pazienti che, a causa di una pericolosa forma di epilessia, avevano subito la separazione dei due emisferi mediante la scissione del corpo calloso.
Da questi originali esperimenti è emerso che l’emisfero destro elabora i dati in modo rapido, spaziale, non verbale, sintetico e globale. L’emisfero sinistro, al contrario, analizza i particolari, scandisce lo scorrere del tempo, programma, svolge funzioni verbali, di calcolo, lineari e simboliche. Trovi un’interessante descrizione di questi studi nell’articolo “The split brain: A tale of two halves” pubblicato su Nature.
Le ricerche svolte da Roger Sperry e dai suoi collaboratori (tra cui Michael Gazzaniga, Joseph LeDoux, David Hubel, Torsten Wiesel, ecc.) hanno dato un contributo fondamentale alla comprensione del funzionamento del cervello umano. L’équipe ha ricevuto numerosi riconoscimenti (California Scientist of the Year Award nel 1972, Wolf Prize in Medicine e Albert Lasker Medical Research Award nel 1979) e ottenuto, nel 1981, il Premio Nobel per la Medicina e la Fisiologia.
C’è un aspetto fondamentale, secondo me, da non trascurare: queste ricerche sono state svolte su pazienti “split brain”, in cui i due emisferi non comunicavano tra loro, mentre il cervello ha una struttura reticolare e le connessioni tra le diverse aree rappresentano un fattore cruciale nel suo funzionamento.
Gli strumenti di ricerca neurologica più recenti, come la risonanza magnetica funzionale (fMRI) e la tomografia a emissione di positroni (PET), permettono, oggi, di visualizzare le variazioni dell’attività cerebrale e di comprendere più a fondo il funzionamento del cervello, associando la funzione studiata con l’attivazione di una o più aree del cervello.
Alla luce di questi studi, la distinzione dicotomica “emisfero destro” – “emisfero sinistro” (pur nella sua validità) appare un po’ troppo semplicistica, incompleta e imprecisa.
Cosa accade (realmente) nel nostro cervello?
Thomas Bever, docente di Scienze Cognitive e Neuroscienze presso l’University of Arizona, ha evidenziato, fin dagli anni ’70, che la musica viene “elaborata” dall’emisfero destro nelle persone “comuni”, mentre nei musicisti professionisti (e negli esperti di musica) viene attivato principalmente l’emisfero sinistro.
Howard Gardner, docente presso l’Harvard University, nel libro “Aprire le menti” racconta che durante le sue ricerche (all’inizio degli anni ’90) presso il Veterans Administration Hospital di Boston, aveva notato che persone cerebrolese avevano perso alcune capacità, ma ne avevano mantenute integre altre. Un compositore non era più in grado di leggere le parole né di nominare gli oggetti, ma poteva ancora leggere la musica ed era in grado di comporre; altri soggetti con gravi danni all’emisfero sinistro (sede del linguaggio) erano capaci di raccontare barzellette e di capire le metafore.
Il neuroscienziato indiano Vilayanur Ramachandran, nel testo “Che cosa sappiamo sulla mente”, ha evidenziato che le persone che avevano lesioni nella circonvoluzione angolare (nel lobo parietale) di sinistra non erano in grado di capire le metafore, pur comprendendo bene il linguaggio.
Stephen Kosslyn, neurobiologo cognitivo docente ad Harvard, propone, nel suo recente libro “Top Brain, Bottom Brain: Harnessing the Power of the Four Cognitive Modes”, un nuovo approccio che analizza le distinzioni tra “Cervello Alto” e “Cervello Basso”.
Durante alcune ricerche sulla formazione di immagini mentali a occhi chiusi, Kosslyn ha notato una “via neurale” che coinvolge la parte “alta” del cervello (che comprende il lobo parietale e la parte superiore del lobo frontale), che utilizza le informazioni provenienti dall’ambiente per decidere gli obiettivi e le strategie da seguire. Nella parte “bassa” (formata dalla sezione inferiore del lobo frontale e dai lobi temporale e occipitale) sembra attiva una diversa “via neuronale”, che confronta le percezioni con le informazioni in memoria per interpretare e classificare oggetti e situazioni.
A seconda delle preferenze nell’utilizzo della parte “alta” o “bassa” del cervello, la “teoria delle modalità cognitive” consente di delineare quattro modalità principali di pensiero: “dinamica” (mover), “percettiva” (perceiver), “stimolativa” (stimulator), “adattiva” (adaptor).
Non è semplice descrivere che cosa accade nel nostro cervello quando pensiamo, quando elaboriamo gli stimoli sensoriali, quando pianifichiamo o eseguiamo attività motorie; sappiamo, però, che vengono coinvolte numerose aree dei diversi lobi (frontale, parietale, temporale e occipitale) in entrambi gli emisferi.
Quali “aree” del cervello attiviamo durante il processo creativo?
Numerosi neuro scienziati, come Jeremy Gray (Michigan State University), Adam Green (Georgetown College), John Kounios (Drexel University, Philadelphia ), Rex Jung (University of New Mexico), Kalina Christoff (University of British Columbia) stanno esplorando che cosa accade realmente nel cervello durante il processo creativo. Emergono tre aree o, meglio ancora, tre “network”, che sono coinvolti nelle varie fasi (chiarificazione, ideazione, elaborazione, selezione, applicazione) del processo creativo.
Se svolgiamo attività che richiedono un’attenzione focalizzata, come, ad esempio, seguire una lezione impegnativa o analizzare un problema complesso, si attivano connessioni (Executive Attention Network) tra le regioni della corteccia prefrontale e le aree della parte posteriore del lobo parietale.
Quando dobbiamo costruire immagini mentali di esperienze passate, pensare a progetti futuri o immaginare alternative a scenari attuali, entrano in azione aree profonde della corteccia prefrontale, del lobo temporale e varie regioni (esterne ed interne) della corteccia parietale. Questa rete di collegamenti (Imagination Network) è coinvolta anche nelle relazioni sociali, quando cerchiamo di immaginare, ad esempio, a che cosa stia pensando il nostro interlocutore.
Il terzo “circuito cerebrale” (Salience Network) monitora costantemente sia gli eventi esterni, sia il flusso di coscienza interno e, a seconda delle circostanze, dà la precedenza alle informazione più salienti per risolvere il compito. Coinvolge la corteccia prefrontale mediale (cingolata anteriore) e la corteccia insulare anteriore. Questo “circuito” si incarica, inoltre, di attivare ed alternare l’Executive Attention Network e l’Imagination Network.
I processi mentali che contribuiscono all’atto creativo, quindi, coinvolgono diverse aree in entrambi gli emisferi del nostro cervello, come si desume da questa immagine:
“The Executive Attention Network” in verde e “The Imagination Network” in rosso. Photo by Proceedings of the National Academy of Science of U.S.A. http://www.pnas.org/content/108/27/11241/F2.large.jpg
Nel processo creativo, afferma Rex Jung, una volta definito il problema, si verifica una riduzione dell’Executive Attention Network: questo rende più agevole l’immaginazione, l’intuizione e la formazione di nuove idee da parte dell’Imagination Network. Poi, a seconda della complessità del compito e delle stimolazioni dell’ambiente, si verifica una maggiore attività dell’Executive Attention Network e del Salience Network.
Queste dinamiche sono emerse anche dalla ricerca “Neural Correlates of Lyrical Improvisation: An fMRI Study of Freestyle Rap”, svolta su rapper che stavano improvvisando, coinvolgendo sia il linguaggio sia la musica, nel processo creativo.
C’è ancora molto da scoprire su quello che accade nel nostro cervello durante un atto creativo, ma come ricordava Albert Einstein la creatività, in fondo, è “l’intelligenza che si diverte!”.
[Articolo pubblicato, originariamente, su Wired.it]